
Anno di nascita: 987 - Anno di morte: 1204
Per le origini della casata, sempre meno accettabile appare l'ipotesi di una derivazione dai cosiddetti conti di Bologna. Recentemente è stato infatti ipotizzato che possa appartenere alla nostra famiglia quel conte Ildebrando che il 6 giugno 987, affiancato dal giudice lucchese Leone, missus dell'imperatore Ottone II, presiedette un placito a Firenze lasciando pensare che proprio quello fiorentino sia stato il comitatus di cui era investito Ildebrando. Costui potrebbe essere il padre del personaggio considerato a lungo il capostipite della casata, quel conte Ildebrando proprietario nell'ottobre 1002 di beni presso Prato, nella cui «curte et casa» «prope castello de Prato» nel maggio 1027 una donna scelse il proprio mundoaldo.
Ad ogni modo, le prime notizie certe mostrano la famiglia saldamente radicata a Prato e nel territorio circostante; e proprio la piana pratese, la valle del Bisenzio e più in generale il territorio tra Pistoia e Firenze rappresentarono per i conti un'importante area di espansione. La maggior parte dei documenti che li riguardano sino alla fine dell'XI secolo furono rogati proprio a Prato, ove essi esercitavano diritti signorili e possedevano una curtis, cioè un centro amministrativo del loro patrimonio. Il costante rapporto con questa località e la continua presenza degli Alberti nel castello e nei suoi immediati dintorni induce ad attribuire ad essi la nascita del centro fortificato, connesso con la loro curtis e sorto come nucleo di aggregazione e di controllo signorile del territorio. Da Prato gli Alberti trassero anche il titolo comitale, testimoniato per la prima volta per il conte Alberto II, nipote del capostipite, sul finire dell'XI secolo, e poi usato nel XII e sino ai primi decenni del XIII, quando, al livello della settima generazione, in seguito alle divisioni patrimoniali tra loro intervenute, i figli del conte Alberto IV s'intitolarono ciascuno dal proprio possesso più importante. Come le altre casate comitali toscane, anche gli Alberti cercarono di concentrare la propria attività là dove estesi patrimoni già in loro possesso consentivano, attraverso la fondazione di castelli con la connessa creazione di nuove e proficue reti di rapporti, l'esercizio indisturbato degli antichi poteri di origine pubblica e il loro rafforzamento ed ampliamento nella prospettiva, non sempre peraltro realizzatasi, della costituzione di forme signorili di carattere territoriale. Dagli anni Quaranta dell'XI secolo gli Alberti risultano attivi nella Val di Pesa e nell'ultimo trentennio dell'XI secolo la documentazione consente di cogliere, in un contesto di allargamento delle prospettive della famiglia, la formazione di una rete di collegamenti e di relazioni capaci di favorire il radicamento signorile attraverso la coordinazione di ben definiti ambiti territoriali. La nomina di Goffredo, figlio di Alberto II e di Sofia, al soglio vescovile di Firenze (1113) testimonia il notevole rilievo ormai acquisito dai conti Alberti, dalla fine dell'XI secolo in grado di svolgere un ruolo sempre più importante nelle vicende toscane. Il pontificato fiorentino di Goffredo, progettato con il preciso scopo di favorire le mire espansionistiche della casata, finì al contrario per risolversi in un elemento di contrasto tra i conti e la città di Firenze, dal momento che gli Alberti, nell'opera di costruzione di un saldo dominio signorile territoriale nel cuore della Toscana, si trovarono di fronte le nascenti autonomie comunali, delle quali non seppero cogliere tutta l'importanza politica ed economica né prevedere il futuro successo. Nel giugno 1116 un figlio del conte Alberto II, Ottaviano, fu testimone in una donazione al monastero di Passignano rogata in quell'anno nella località di Pogni: questo atto testimonia la presenza dei conti nel castello di Pogni che ebbe un ruolo importante nella costruzione signorile degli Alberti.
Tra il 1119 e l'inizio del 1120, si verificò un evento di capitale importanza nella storia della famiglia, il fortunato matrimonio stretto dal conte Berardo Tancredi Nontigiova, figlio di Alberto II, con Cecilia, vedova del conte
Ugo, l'ultimo rappresentante della potente casata dei Cadolingi morto nel 1113, e figlia del conte Arduino da Palù. Fu proprio in base alla quarta parte spettante a Cecilia del patrimonio del primo marito che gli Alberti riuscirono ad impadronirsi in modo più o meno legale di cospicui possessi già dei Cadolingi in varie parti della Toscana e sull'Appennino bolognese.
Negli anni Trenta del XII secolo gli Alberti appaiono ormai in possesso di un vasto patrimonio, dislocato in aree periferiche o di confine rispetto alle città e ai loro distretti, ove erano pervenuti a costituire una serie di signorie territoriali incentrate sulle località fortificate, i castelli, e basate economicamente sullo sfruttamento delle risorse agricole, minerarie esilvopastorali e sul controllo di vie di comunicazione di terra e d'acqua.
Intorno al 1140 la documentazione attesta gli interessi della casata sia in aree già note, come i dintorni di Prato, il Valdarno fiorentino e la Valdelsa, sia in zone precedentemente non documentate come l'alta Val di Cècina, mentre altre proprietà, ancora provenienti dall'eredità cadolingia, si trovavano tra la Valdera e il mare, nei territori di Pisa, di Lucca e di Volterra. La presenza dei conti in Valdelsa e nell'alta Val di Cecina da un lato ribadisce l'interesse per il solco vallivo dell'Elsa, dotato di un importante ruolo nelle comunicazioni, e dall'altro mostra una nuova linea di penetrazione attraverso le Colline Metallifere verso la Maremma, ossia l'attenzione per l'economia mineraria, il sale e la transumanza propri di quell'area.
L'intervento in Italia, e in particolare nelle questioni toscane, dell'imperatore Federico Brabarossa (1150) aprì un nuovo periodo nella storia dei conti Alberti che, al pari di altre importanti casate comitali detentrici di domini signorili territoriali più o meno vasti e saldi, cercarono l'appoggio dell'imperatore e dei suoi alleati per rafforzare e magari ampliare i propri domini di fronte alle città, divenute ormai concorrenti temibili e sempre più pericolosi. Tali aspirazioni trovavano una precisa corrispondenza nella politica del Barbarossa, teso a sua volta a limitare e a controllare le autonomie comunali. In questo contesto l'episodio più importante è rappresentato dal diploma che il 10 agosto 1164 a Pavia l'imperatore Federico I emanò a favore del giovane conte Alberto IV: secondo le norme emanate a Roncaglia, gli furono restituiti e confermati i diritti e i possessi che della loro contea, de comitatu, avevano avuto il nonno conte Alberto II ed i suoi figli e che fossero stati eventualmente alienati. L'imperatore concesse dunque ad Alberto IV le regalie e i diritti dell'impero («omnia regalia et iura et omnem nostram iurisdictionem») su una serie di località fra le quali Certaldo, della cui esistenza il documento in questione costituisce la più antica testimonanza scritta fin'ora pervenuta.
Ciò che colpisce in questa lunga lista è la dislocazione geografica dei possessi degli Alberti, situati lungo le più importanti vie di comunicazione che collegavano il Bolognese con il Valdarno, la Toscana centrosettentrionale con le Colline Metallifere e con la costa maremmana, unendo cioè tra loro aree produttrici d'importanti materie prime come il sale, i metalli, e in particolare l'argento, e i prodotti derivanti dall'allevamento e dalla transumanza (carne, lana, pelli, formaggio). L'intento degli Alberti era dunque quello di controllare, attraverso una rete strategica di castelli, i principali assi viari della Toscana centrale e dell'Appennino, dai quali essi potevano trarre ingenti guadagni attraverso la riscossione dei pedaggi ma che consentivano loro anche d'intervenire direttamente nel commercio delle materie prime.
Pochi anni più tardi Alberto IV ideò un progetto audace e grandioso, la fondazione di un centro capace di assicurare al suo disegno di costituzione di un vero e proprio principato il necessario saldo punto di appoggio in posizione centrale, una nuova città da opporre a Firenze: Semifonte, in Valdelsa tra Certaldo e Barberino, in una zona caratterizzata dall'incontro d'importanti vie di comunicazione e ove più ampia e forte appariva la base di potere della famiglia. Ma l'epoca favorevole a tale tipo di affermazione signorile era trascorsa da un pezzo e il conte si scontrò con la crescente potenza dei diversi comuni toscani, in particolar modo con Firenze, ma anche con Pistoia e Lucca. La guerra di Semifonte si risolse a sfavore degli Alberti: in una prima fase dovettero sottomettersi al Comune di Firenze i castelli strategicamente più rilevanti posseduti dalla famiglia, Pogni e Mangona, e lo stesso Alberto IV fu preso prigioniero e costretto a scendere a patti con quel Comune, cui nel novembre 1184 fece notevoli concessioni. Tra le varie clausole giurate dal conte, dai figli Guido e Maghinardo e dalla moglie Tabernaria, particolare rilievo avevano l'impegno degli Alberti a distruggere entro mese di aprile successivo il castello di Pogni salvo il «palatium cum turri» e le torri di Certaldo, a far giurare ai Fiorentini i loro uomini tra l'Arno e l'Elsa e quelli dei castelli di Vernio e di Ugnano, e la cessione di metà del «datium et acatum» riscosso annualmente dai loro castelli e ville, terre, homines e possessi tra l'Arno e l'Elsa. Guido e Maghinardo promisero anche di abitare a Firenze due mesi l'anno in tempo di guerra e un mese in tempo di pace. Nel febbraio 1198 Alberto IV fu costretto ad aderire alla lega di S. Genesio, il che equivaleva ad accettare la supremazia dei Fiorentini e dar loro mano libera: i Fiorentini eccettuarono dall'accordo i castelli di Semifonte, Certaldo e Mangona, ossia le località che rappresentavano per Alberto IV i gioielli del suo dominio e per Firenze un importante obiettivo da sottomettere e conquistare. Firenze avrebbe dunque potuto continuare la guerra contro Semifonte e costringere gli altri castelli a giurare i patti. E così infatti avvenne: l'11 maggio 1198 gli uomini di Certaldo furono costretti a sottomettersi al Comune di Firenze e a giurare la lega, mentre l'anno successivo i Fiorentini presero e distrussero il castello di Fondignano in Val di Pesa.
Malgrado l'adesione alla lega di S. Genesio, la posizione di Alberto IV divenne sempre più insostenibile ed egli, resosi conto dell'inanità dei suoi sforzi, nella speranza di salvare il resto dei propri domini signorili, scelse di sacrificare Semifonte: con un brusco voltafaccia, nel febbraio 1200 si accordò con il Comune di Firenze, impegnandosi ad aiutarlo contro il centro valdelsano e a concedergli il castello di Certaldo, su cui pure, come si è visto, si appuntavano le aspirazioni dei Fiorentini. In questa occasione furono ripetute le clausole finanziarie del patto del 1184, cui fu aggiunto l'impegno da parte del conte a non esigere alcun passadium dai cittadini e mercanti fiorentini. Alberto IV morirà nel 1203, poco dopo la distruzione di Semifonte: i suoi beni, per testamento, vennero spartiti fra i figli Alberto V, Maghinardo, Rinaldo e Ugolino. A Maghinardo andarono i beni posti fra la Pesa e l'Elsa tra i quali Certaldo, castello dal quale e i figli trassero il titolo comitale "da Certaldo".
Le vicende patrimoniali successive alla morte di Alberto IV portarono alla divisione della casata in tre rami, discendenti dai figli superstiti del conte: il gruppo familiare di Rinaldo si rivelò ben presto il più debole e si estinse nella seconda metà del Duecento: i suoi beni passarono ai Comuni di Volterra, Massa Marittima e Pisa e alla famiglia comitale dei Pannocchieschi (che subentrarono agli Alberti nel'area delle Colline Metallifere). Gli altri due rami della casata, i conti di Certaldo discendenti da Maghinardo e i conti di Mangona discendenti da Alberto V, riuscirono invece a sostenersi ancora a lungo, benché fosse loro preclusa ogni politica di espansione territoriale e signorile. I conti Alberti ebbero proprietà su Certaldo almeno fino a tutto il XVII secolo come ci informano alcuni contratti di vendita con i quali i Conti cedevano alcuni poderi al convento fiorentino di Santo Spirito.
Fonti archivistiche: ASFi, Corporazioni religiose soppresse dal governo francese, 122, 63 (1692-1693), cc. 22v. Bibliografia specifica: Ceccarelli Lemut, 2004, pp. 213-233